1.
La tutela del diritto d'autore in rete: cenni generali.
L’art. 1 della legge italiana sul diritto d’autore n. 633 del 22 Aprile 1941
(l.d.a.) tutela le opere dell'ingegno di carattere creativo che appartengono
alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all'architettura, al teatro
ed alla cinematografia, qualunque ne sia il modo o la forma di espressione.
Inoltre, sono protetti i programmi per elaboratore ai sensi della Convenzione di
Berna sulla protezione delle opere letterarie ed artistiche (ratificata e resa
esecutiva con legge 20 Giugno 1978, n. 399), nonché le banche di dati che -per
la scelta o la disposizione del materiale- costituiscono una creazione
intellettuale dell'autore. La norma offre tutela alle opere dell’ingegno umano,
a condizione che sia presente il carattere della “creatività”, vale a dire un
apporto personale dell’autore che –per quanto piccolo- consenta all’opera di
presentare un quid novi rispetto alle opere preesistenti[1]. Il concetto di
"creatività", quindi, non coincide con quello di novità assoluta, ma va
individuato in un grado di originalità che, seppur minimo, sia idoneo a
distinguere un'opera dalle altre[2]. La normativa italiana in tema di proprietà
intellettuale riconosce all’autore i diritti patrimoniali ed i diritti morali
sull’opera realizzata. Mentre i primi hanno durata temporale limitata e sono
alienabili, la caratteristica dei diritti morali è quella di non essere soggetti
a termini di durata e di essere inalienabili. Il primo comma dell’art. 20 della
l.d.a., infatti, stabilisce che “indipendentemente dai diritti esclusivi di
utilizzazione economica dell'opera (…) ed anche dopo la cessione dei diritti
stessi, l'autore conserva il diritto di rivendicare la paternità dell'opera e di
opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione od altra modificazione, ed a ogni
atto a danno dell'opera stessa, che possano essere di pregiudizio al suo onore o
alla sua reputazione.” In varie occasioni, le istituzioni comunitarie si sono
occupate del problema della globalizzazione telematica imposta da Internet ed
hanno preso in considerazione il tema della proprietà intellettuale in rete. Nel
Novembre del 1988, quando Internet era ancora una realtà cui avevano accesso
poche centinaia di unità in tutta Europa, la Commissione Europea realizzò il
c.d. libro verde “Il diritto d’autore e le sfide tecnologiche” per indicare le
linee guida per giungere ad un’armonizzazione sul tema fra le legislazioni dei
vari Paesi membri della Comunità[3]. Secondo alcune autorevoli voci, la
struttura di Internet, la "globalizzazione", fenomeni quali il "no copyright",
l'open source e le cyber arts rappresenterebbero la morte del diritto d'autore o
-rectius- l'inizio dell'agonia della tutela che la legge offre all'autore… In
effetti, non si può dire che le opere riprodotte in rete possano godere di
tutela giuridica effettiva al pari delle opere su supporto tradizionale[4]. Al
contempo, è necessario evidenziare che nell’era delle new economy, nell’epoca in
cui gradualmente si giunge alla smaterializzazione del supporto di informazione,
non sono i beni materiali ad avere valore, ma le idee, i concetti, le immagini:
nel c.d. ciberspazio la proprietà del capitale fisico –retaggio della civiltà
industriale- diventa sempre meno rilevante, a differenza di ciò che accade ai
beni immateriali. Internet, quindi, non sancisce affatto la fine del copyright,
ma obbliga i giuristi a dover affrontare nuove sfide per reperire gli strumenti
più adatti alla tutela dell’opera intellettuale presente in rete[5].
2.
La tutela del software ed Internet: premessa. Il software è
un'opera d’ingegno e, pertanto, un bene immateriale. Nel 1986, durante la
Conferenza intitolata Regolamento e protezione del software in relazione alle
esigenze delle softwarehouse e degli utenti nei Pesi CEE[6], Salvatore Pastore
ha recuperato la definizione di software suggerita dall'OMPI nel 1984:
"espressione di un insieme organizzato e strutturato di istruzioni (o simboli)
contenuti in qualsiasi forma o supporto (nastro, disco, film, circuito), capace
direttamente o indirettamente di far eseguire o far ottenere una funzione, un
compito o un risultato particolare per mezzo di un sistema di elaborazione
elettronica dell'informazione". E’ stato efficacemente sintetizzato che “il
valore del software, anche sotto il profilo giuridico, non sta nel supporto su
cui è registrato, ma nel suo contenuto ideativo e il pericolo che corre il suo
autore non è tanto che gli sia sottratto quel supporto, ma che sia plagiato
indebitamente da altri quel contenuto”[7]. Da questa riflessione si evince che
Internet è l'ambiente in cui il software viene esposto maggiormente a rischi …
Il primo ordinamento che ha riconosciuto al softaware dignità di "opera
intellettuale", diponendo in suo favore la tutela nell’ambito del diritto
d’autore è stato quello statunitense, grazie al Computer Software Amendment Act
del 1980, che ha fortemente condizionato altre normative nazionali. Anche la
Comunità Europea ha deciso di fornire ai programmi la protezione che si
riconosce alle altre opere d'autore attraverso l'emanazione della direttiva
91/250/CEE, recepita nel nostro ordinamento giuridico con il D.Lgs. 518 emanato
il 29 Dicembre 1992, che ha novellato la legge sul diritto d’autore n.
633/41[8]. In particolare, la novella del 1992 ha aggiunto al Capo III della
l.d.a. la sezione VI (Programmi per elaboratore) che si apre con l'art. 64-bis
che recita testualmente: "… i diritti esclusivi conferiti dalla presente legge
sui programmi per elaboratore comprendono il diritto di effettuare o
autorizzare: a) la riproduzione, permanente o temporanea, totale o parziale, del
programma per elaboratore con qualsiasi mezzo o in qualsiasi forma. Nella misura
in cui operazioni quli il caricamento, la visualizzazione, l'esecuzione, la
trasmissione o la memorizzazione del programma per elaboratore richiedono una
riproduzione, anche tali operazioni sono soggette all'autorizzazione del
titolare dei diritti; b) la traduzione, l'adattamento, la trasformazione e ogni
altra modificazione del programma per elaboratore, nonché la riproduzione
dell'opera che ne risulti, senza pregiudizio dei diritti di chi modifica il
programma; c) qualsiasi forma di distrubuzione al pubblico, compresa la
locazione, del programma per elaboratore originale o di copie dello stesso. La
prima vendita di una copia nella Comunità Economica Europea da parte del
titolare dei diritti, o con il suo consenso, esaurisce il diritto di
distribuzione di detta copia all'interno della Comunità, ad eccezione del
diritto di controllare l'ulteriore locazione del programma o di una copia dello
stesso." Gli artt. 64 ter e 64 quater stabiliscono quattro casi in cui non si
può impedire all'utilizzatore del programma di realizzare copia dell'opera,
anche in assenza dell'autorizzazione del titolare del programma: - copia
necessaria all'uso del programma; - copia efettuata per lo studio del programma;
- copia di riserva; - copia per decompilare il programma per ottenere
l'interoperabilità con altri programmi. Infine, per accordare una forte
protezione al software, il DPCM n. 244 del 3 Febbraio 1994 ha indicato le
modalità di tenuta del Registro pubblico speciale per i programmi per
elaboratore, il cui compito è quello di dare pubblicità legale al software. Il
software viene distribuito in varie forme sia in Internet, che sulla c.d. “terra
ferma”. Tra i vari tipi di software diffusi in rete, alcuni meritano di essere
analizzati in modo dettagliato. Tra questi, si segnalano l'open source, il
freeware, il shareware e i programmi di pubblico dominio[9]. a. L'open source
Questo tipo di programma per elaboratore è caratterizzato dal fatto di essere
una sorta di “sistema aperto” che, quindi, chiunque può implementare attraverso
il proprio contributo. Uno dei casi più noti è rappresentato da Linux, un
sistema operativo ideato nel 1991 da uno studente universitario, che si è
sviluppato grazie all’apporto di programmatori di tutto il mondo. L’open source
pone interessanti problemi sotto l’aspetto della proprietà intellettuale, anche
se sembra ormai consolidata la teoria in virtù della quale, dato l’apporto
costante fornito da più soggetti, questo particolare software andrebbe
inquadrato nella categoria delle opere collettive e, in quanto tale, tutelabile
ai sensi dell’art. 10 l.d.a. b. Il freeware Il freeware rappresenta uno dei tipi
di software maggiormente presenti in rete. Può essere copiato ed utilizzato
gratuitamente, ma il codice sorgente non può essere utilizzato in assenza del
consenso dell’autore (in capo al quale -ovviamente- devono riconoscersi i
diritti derivanti dalla proprietà intellettuale). A questa categoria di
programmi appartiene il diffuso cardware, che può essere copiato ed utilizzato
da chiunque, a condizione che venga inviato all’autore una comunicazione, nonché
una somma simbolica a compenso della propria fatica. Anche in questo caso,
l’autore non si spoglia dei diritti derivanti dalla paternità dell’opera. c. Il
shareware Altra categoria di software per elaboratore è quella del shareware: i
programmi circolano liberamente sulla rete e possono essere copiati ed
utilizzati, ma entro certi limiti (indicati dalla licenza). Possono essere
previsti: - l’utilizzo entro un certo termine; - l’utilizzo di una sola parte
del programma; - l’utilizzo del programma in forma “disturbata” (il c.d.
nagware) d. I programmi di pubblico dominio I programmi sotto regime di public
domain sono quelli per i quali l’autore si spoglia completamente di ogni diritto
riconosciutogli dalle norme in tema di proprietà intellettuale: chiunque può
copiare ed utilizzare il programma, assemblandolo ad altri o modificandolo (tali
programmi sono frequentemente accompagnati dall'indicazione no copyright).
3.
La giurisprudenza nazionale in tema di programmi per elaboratore.
Le prime pronunzie di merito occupatesi di programmi per elaboratore negarono al
software "la titolarità dei un diritto d'autore[10]". Nel 1983, il Tribunale di
Torino[11] ritenne applicabile ad alcuni videogiochi la disciplina dettata per
le opere cinematografiche. Secondo l’interpretazione dei giudici torinesi, non
dovevano ritenersi opere cinematografiche solo i film, ma anche le altre forme
di rappresentazione indipendentemente dalla tecnica utilizzata e dalla forma
d’espressione[12] Gradualmente, si affermò nella giurisprudenza del nostro Paese
il convincimento che i programmi per computer fossero opere di ingegno per
l’originalità che presentavano e che anche al software dovesse applicarsi la
tutela prevista dal diritto d’autore[13]. Il 24 Novembre 1986, la Cassazione
riconobbe espressamente la possibilità di estendere ai programmi per elaboratore
la normativa in tema di diritto d'autore "in quanto opere dell'ingegno che
appartengono alle scienze e si esprimono in linguaggio tecnico-convenzionale
concettualmente parificato all'alfabeto o alle sette note"[14]. L'anno
successivo, la Corte di cassazione precisò che i programmi per elaboratore
potevano essere ritenuti opere d’ingegno tutelabili in sede giudiziale, solo
quando fossero il risultato di uno sforzo creativo caratterizzato da un apporto
nuovo nel campo informatico o quando avesse espresso soluzioni originali ai
problemi di elaborazione dei dati (Cass. 6 Febbraio 1987, n. 1956). Con il d. l.
518/1992 è stata recepita nel nostro Paese la direttiva 91/250/CEE, dedicata
alla tutela giuridica del software “ai sensi della Convenzione di Berna sulla
protezione delle opere letterarie ed artistiche”, attraverso cui è stata
modificata la legge sul diritto d’autore e si è fornita una specifica protezione
al software in ambito penale. Particolarmente interessante è l’esame compiuto
dalla giurisprudenza di merito in ordine all’elemento psicologico del reato
previsto dalla vecchia formulazione dell’art. 171 bis l.d.a. nel caso di
duplicazione non autorizzata di vari porogrammi software, che puniva chiunque
abusivamente duplicasse a fini di lucro, programmi per elaboratore, o, ai
medesimi fini e sapendo o avendo motivo di sapere che si trattasse di copie non
autorizzate, importasse, distribuisse, vendesse, detienesse a scopo commerciale,
o concedesse in locazione i medesimi programmi. Al riguardo la giurisprudenza ha
fornito due interpretazioni della terminologia scopo di lucro utilizzata dal
legislatore nell'articolo 171 bis: secondo un orientamento il "lucro" sarebbe
stato rappresentato dall'accrescimento positivo del patrimonio a differenza del
"profitto", più ampio concetto, che avrebbe incluso tanto l'accrescimento
diretto del patrimonio quanto quello indiretto, verificatosi attraverso una
mancata perdita patrimoniale (Pretura Cagliari, 26.11.1996); secondo l'altra
interpretazione il fine di lucro avrebbe compreso anche il profitto derivante
dal risparmio di costi (Tribunale Torino, 20.04.2000). Con pronunzia del
Tribunale di Torino datata 13 Luglio 2000, è stato rilevato che "il legislatore
con l'articolo 10 del decreto legislativo 29 Dicembre '92 518 ha introdotto, in
seno alla legge di protezione del diritto d'autore, l'articolo 171 bis, così
configurando una fattispecie dolo specifico; il legislatore ha cioè richiesto
l'elemento intenzionale del fine di lucro per l'integrazione del reato. Tale
innesto normativo è del tutto razionale e in armonia con altre norme (di natura
civilistica) previste dalla stessa legge di protezione del diritto d'autore,
quali l'articolo 64 ter comma secondo (che prevede, in particolari condizioni,
la liceità della formazione di una copia di riserva del programma informatico) e
l'articolo 68 comma primo della stessa legge (che consente la libera
riproduzione di opere per uso personale), dalle quali si ricava che il solo
fatto della duplicazione non costituisce condotta illecita"[15]. Con la stessa
sentenza, il giudice di merito ha avuto modo di pronunciarsi sulla
configurabilità del reato di ricettazione con riferimento al software. Nel caso
de quo, l’imputato giustificava la condotta tenuta, facendo leva sulla propria
passione per l'informatica, sostenendo di avere "scaricato" alcuni programmi da
Internet, di avere acquistato altri programmi unitamente a riviste specializzate
vendute in edicola, di avere acquistato taluni programmi "in originale" e di
averli poi duplicati a fine di conservazione e uso personale, talvolta gettando
via il software originale perché usurato [16].
4.
Le recenti modifiche alla l.d.a. e la tutela del software.
Le interpretazioni giurisprudenziali dell’art. 171 bis l.d.a, che prendevano le
mosse dalla necessità di distinguere i casi in cui fosse presente lo scopo di
lucro da quelli in cui fosse assente tale atteggiamento psicologico, possono
ritenersi ampiamente superate alla luce delle recenti modifiche apportate alla
l.d.a. attraverso la legge 248/2000, che rende penalmente sanzionabile la
duplicazione di software non solo quando viene duplicato ai fini della vendita
con conseguente “profitto” da parte del duplicatore. Il novellato art. 171 bis,
infatti, punisce “chiunque abusivamente duplica, per trarne profitto, programmi
per elaboratore o ai medesimi fini importa, distribuisce, vende, detiene a scopo
commerciale o imprenditoriale o concede in locazione programmi contenuti in
supporti non contrassegnati dalla Società italiana degli autori ed editori
(SIAE)". Prima della riforma, la norma richiedeva il dolo di lucro, non quello
di profitto e, pertanto, il semplice “risparmio di spesa” non costituiva reato.
Oggi, invece, la duplicazione di software, se posta in essere ai fini di
“risparmio” integra gli estremi dell’illecito penale, con conseguente estensione
a macchia d’olio dell’applicabilità della fattispecie[17]. Destinata a far
discutere è la formulazione del nuovo art. 181 bis che prevede l’apposizione da
parte della SIAE di “un contrassegno su ogni supporto contenente programmi per
elaboratore o multimediali nonchè su ogni supporto contenente suoni, voci o
immagini in movimento, che reca la fissazione di opere o di parti di opere tra
quelle indicate nell’articolo 1, primo comma, destinati ad essere posti comunque
in commercio o ceduti in uso a qualunque titolo a fine di lucro.” Il legislatore
precisa che “analogo sistema tecnico per il controllo delle riproduzioni di cui
all’articolo 68 potrà essere adottato con decreto del Presidente del Consiglio
dei ministri, sulla base di accordi tra la SIAE e le associazioni delle
categorie interessate.” Il legislatore stabilisce che il contrassegno “può non
essere apposto sui supporti contenenti programmi per elaboratore disciplinati
dal decreto legislativo 29 Dicembre 1992, n. 518, utilizzati esclusivamente
mediante elaboratore elettronico, sempre che tali programmi non contengano
suoni, voci o sequenze di immagini in movimento tali da costituire opere
fonografiche, cinematografiche o audiovisive intere, non realizzate
espressamente per il programma per elaboratore, ovvero loro brani o parti
eccedenti il cinquanta per cento dell’opera intera da cui sono tratti, che diano
luogo a concorrenza all’utilizzazione economica delle opere medesime. In tali
ipotesi la legittimità dei prodotti, anche ai fini della tutela penale di cui
all’articolo 171-bis, è comprovata da apposite dichiarazioni identificative che
produttori e importatori preventivamente rendono alla SIAE” (art. 181 bis, comma
III l.d.a.)[18]. Dal tenore letterale del testo normativo risulta evidente che
l’apposizione del contrassegno sui supporti contenenti semplice software di
utilità non sarà affatto obbligatorio[19]. Neppure ha senso dire che la riforma
(seppur dettata da esigenze ben note) "uccida" l'open source, come Linux, per la
necessità di apporre il contrassegno. Infatti, anche volendo ignorare la portata
del comma III dell'art. 181 bis, è il comma I dello stesso articolo a indicare
tassativamente programmi su cui apporre il contrassegno SIAE: 1) quelli
destinati ad essere posti in commercio; 2) quelli ceduti in uso a qualunque
titolo a fine di lucro. Pertanto, è evidente che -in ogni caso- né l'open
source, né i programmi contrassegnati dal no copyright potranno essere soggetti
alla necessaria apposizione del "bollino" SIAE, oggi al centro di un dibattito
molto acceso.
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